PRESENTAZIONE di Francesco Giovanetti

Se guardiamo a cosa succede nei cantieri di restauro e di recupero, osserviamo che la rivitalizzazione dei materiali e delle tecniche tradizionali, che solo vent’anni fa poteva apparire come un’utopia passatista, oggi è una realtà in espansione, avviata all’inizio da alcune amministrazioni pubbliche pioniere ed in seguito trainata da una domanda “di nicchia”, minoritaria ma di avanguardia, ormai radicata nell’edilizia.
Questa nuova domanda, che si posiziona sui livelli alti del mercato, ha determinato un “rinascimento” dell’interesse verso gli elementi tipici dell’edilizia premoderna ed ha determinato un sensibile incremento della produzione e della reperibilità di materiali tradizionali quali i laterizi, gli intonaci, i legnami, eccetera.
Diversamente da venti anni fa, organizzare un cantiere per interventi tradizionali oggi non è difficile né per gli approvvigionamenti né per il reperimento delle maestranze.

Questa nuova dimensione applicativa dell’arte di costruire premoderna ha bisogno di essere nutrita da un’attività di formazione rivolta all’insieme degli operatori del settore del restauro-recupero, inteso come un amalgama piuttosto che come un aggregato di professionalità indipendenti stratificate in ruoli specialistici.

Si rimarca quanto sia importante, per il successo di tale atteggiamento, superare la reciproca segregazione tra le competenze professionali dell’architetto, dell’ingegnere e degli altri professionisti (impiantisti, esperti di prevenzione incendi, …) che contribuiscono all’esito di un intervento.
E’ opportuno soffermarsi sul concetto di multidisciplinarietà nel restauro architettonico: alla multidisciplinarietà che aggrega specialisti autoreferenziati non dialoganti, cui ci ha abituati il trapianto del Taylorismo dalla fabbrica alle professioni, va sostituita l’affinità intellettuale tra professionisti depositari di conoscenze specifiche.

Il volume di Giovanni Manieri Elia è pienamente dentro questo spirito del tempo e potrà svolgere una utile funzione formativa rivolta sia agli studenti digiuni della materia del restauro, che ai professionisti già attivi.
Gli studenti possono immergersi senza mediazioni in una dimensione globale del restauro, di metodo – per l’appunto – e insieme di intervento.
I professionisti attivi nella pratica del restauro architettonico possono mettere a confronto i differenti atteggiamenti ideologici con le opzioni e, talvolta, i “dilemmi” che si associano alla pratica attuazione degli interventi.
Si tratta di una rassegna ragionata della realtà del restauro oggi, con dovizia di particolari, riferimenti di ciascuna prassi alla teoria sottesa e, simmetricamente, con riferimento di ciascuna teoria alla prassi conseguente.

La sintetica trattazione dedicata alla storia ed alla teoresi del restauro architettonico è immediatamente svolta in termini applicativi. L’autore, infatti, osserva che “le opere conservate [sono] quelle che hanno avuto continuità d’uso, che sono state cioè curate, valorizzate e amate nel tempo ”, in una parola – diremmo noi – “manipolate”: un modo elegante per mettere da parte l’istanza illusoria della pura conservazione, il cui “limite” teorico - va ricordato - può concretizzarsi solo nell’abbandono del bene all’azione entropica del tempo.
Al contrario - l’Autore insiste su questo concetto – la conservazione non è “da intendersi come [] il rallentamento del degrado ma anche, dinamicamente, come atto valorizzativo” ossia - continuiamo noi - attività di trasformazione, sia della materia che del suo significato, complessivamente intesa a prolungare la durata degli edifici storici nel tempo, attribuendo loro una destinazione d’uso capace di assicurare le risorse necessarie al mantenimento in efficienza.

Nella prima parte, il volume disegna una sintetica ma precisa rassegna storica delle posizioni teorico-metodologiche sul restauro architettonico.
Un attento esame delle “carte” che hanno cercato di ipostatizzare i principi del restauro è proposto nell’unica chiave sensata: la smitizzazione del loro valore di prescrizione dogmatica.
A scansare l’abitudine – purtroppo diffusa – di una pedestre applicazione di dogmi, Manieri Elia richiama il folgorante paragone di Renato Bonelli tra il “vero restauratore” e l’”operatore inabile” che applica “senza discernimento” questo o quel catechismo del restauro al corpo del monumento, sortendo risultati anche devastanti.

Al lettore è proposta invece, in termini chiari, la dialettica che il restauratore (architetto nel nostro caso) deve porre in atto tra i principi del restauro architettonico e la loro pratica applicazione.
Sia nella teoretica, che nel più vivo ed interessante dominio della pratica del restauro di una architettura determinata, il progettista  deve determinarsi circa il valore dei contenuti che pesano sull’uno e sull’altro polo della dialettica tra conservazione della materia e conservazione della forma.
Le scelte non devono farsi derivare da una preconcettuale visione ideologica, ma devono piuttosto scaturire da considerazioni inerenti gli specifici valori materiali, tipologici, storici e di significato che ciascun progetto di restauro architettonico e recupero deve riconoscere nell’oggetto del proprio intervento.

Ad illustrazione di questo metodo, l’Autore ci propone una trattazione minuziosa, competente ed appassionata delle tappe della sequenza ricerca-rilievo-progetto-cantiere, intesa come processo conoscitivo e riconoscitivo dei valori di materia e di senso di cui la fabbrica è depositaria.
Nelle argomentazioni, traspare l’idea di uno statuto dell’architettura costruita dove materia e significato sono elementi di pari dignità anziché gerarchicamente ordinati, in un processo generativo diacronico anche di lunghissima durata che, come brillantemente l’Autore suggerisce, si carica all’unisono di informazioni materiali e di significati immateriali.

La nozione di “senso” che Manieri Elia ci propone è molto estesa, quando ci invita a riconoscere anche valori “non solo materiali ma anche psicologici, simbolici e percettivi” cui rinunciare solo in caso di stretta necessità.
Sottilmente egli annovera, tra questi valori, anche l’apprezzamento della risposta che un solaio ligneo dà a chi vi cammina sopra: le vibrazioni, i suoni e l’odore (che l’Autore sintetizza in termini di calore) che testimoniano della sua costituzione materiale. Un valore che non transiterà nel risultato di un solaio “consolidato” a cemento armato, che ci offrirà piuttosto “la sensazione di un pavimento duro, rigido, dunque freddo”.

Oltre che da considerazioni intrinseche all’ambito del restauro architettonico, la questione della conservazione della materia si è imposta recentemente, sotto un profilo affatto pratico, a seguito dell’introduzione dei materiali e delle tecniche dell’edilizia industrializzata nei cantieri di restauro e di recupero dell’edilizia storica.
Alla sua diffusione ha contribuito un’ingenua fiducia nei materiali moderni, legittimata – l’Autore ce lo ricorda – da alcune correnti di pensiero novecentesco sul restauro che vi avevano scorto un modo per preservare la stabilità del patrimonio architettonico con opere non visibili in grado di non comprometterne l’aspetto estetico.
A determinare l’attuale fase di ripensamento sull’opportunità dell’uso delle tecniche moderne nel restauro, è stata l’incompatibilità fisica e meccanico-strutturale che gli apporti costruttivi prodotti per incrementare le prestazioni statiche e funzionali hanno molte volte dimostrato nei confronti delle preesistenze premoderne.
L’incompatibilità delle caratteristiche e delle prestazioni dei materiali moderni hanno sovente determinato danni che non riguardano solo i valori di storicità del bene architettonico, ma investono la sua stessa sopravvivenza, la sua stabilità. L’uso delle tecniche moderne sembra aver fallito precisamente là dove riponeva i suoi presunti punti di forza: l’efficacia e la durabilità.

Come Manieri Elia diffusamente spiega, l’innesto di tecnologie di consolidamento “pesanti” ha determinato all’interno degli organismi edilizi storici situazioni di disequilibrio che possono peggiorare le prestazioni statiche complessive.
La crisi del moderno concetto di consolidamento è stata poi esaltata dalla questione sismica. Gli edifici “adeguati” con il calcestruzzo armato hanno dimostrato di non resistere ai terremoti come ci si era aspettato.

Il sintomo di un’alterità culturale al dominio del restauro architettonico si rileva nello stesso termine di “consolidamento”, che denota l’atto settoriale di trasformazione dell’edificio che, mediante l’introduzione di tecnologie contemporanee, solidifica le strutture portanti (muratura e orizzontamenti), che evidentemente solide non si ritengono.
      Coerente con tale definizione è lo specifico termine di “adeguamento”, parola chiave degli interventi che interessano le strutture, specie in zona sismica. L’adeguamento presume un livello da raggiungere (in modernese: un benchmark), rappresentato in questo caso dalle prestazioni tipiche della struttura reticolare iperstatica in calcestruzzo armato.
Nelle definizioni del restauro, al termine “consolidamento” va preferito quello di “restauro strutturale”, termine che denota l’intervento che investe le strutture portanti (muratura e orizzontamenti) con criteri e materiali perlopiù affini a quelli adottati nel concepimento della costruzione.
Coerentemente, nell’ambito delle finalità perseguite dalla pratica tecnica, al termine di “adeguamento” va preferito quello di “miglioramento”, che denota il conseguimento di una capacità di reazione alle sollecitazioni ordinarie di carico ed alle sollecitazioni patologiche superiore a quella di partenza, ottenuta mediante una pratica diagnostica e progettuale “omeopatica”, che affronta l’edificio mediante principi, materiali e tecniche analoghe e compatibili con i principi, i materiali e le tecniche con cui l’edificio è stato ab initio costruito.
Questo, sia chiaro, senza integralistiche preclusioni per i materiali e le tecniche contemporanee - anche recentissime - ove utilizzate appropriatamente e con discrezione.

In realtà, l’abuso di tecnologie moderne traeva alimento ed avallo anche da un altro e più remoto ambito del  pensiero sul restauro: la volontà di dichiarare la diversità, a confronto con la preesistenza, dell’apporto costruttivo pertinente al restauro architetonico.
É il noto imperativo formulato dal Boito nel 1883, che ingiungeva di non falsificare con aggiunte o sostituzioni mimetiche la “verità” dell’originale nel contesto dell’opera restaurata, al fine di non ingannare l’osservatore. Un imperativo che si è specificato ed aggiornato nel corso del Novecento e che continua ancora oggi ad esercitare una notevole influenza sulla pratica dei restauratori.

In effetti, tale indicazione non è da rigettare assolutamente. Anzi, è infatti buona norma che all’occhio dell’osservatore mediamente abile i restauri risultino riconoscibili, ma è opportuno che tale effetto sia conseguito con misura discreta, senza che a causa di un eccesso dichiarativo ne risulti intaccata l’unità architettonica dell’oggetto restaurato, in definitiva il suo significato.

Questo purtroppo spesso non accade. E del precetto incriminato si è fatto e si continua a fare abuso, gridando la diversità tra l’apporto costruttivo del restauro ed il “testo” della preesistenza, anziché sussurrarla come invece è legittimo.
Doppio è il profilo degli urlatori della differenza: da un lato conservatori dogmatici, da un altro architetti che caricano l’atto del restauro con il sovrappeso di una propria espressione, impellendo loro di lasciare “il segno” del “proprio tempo” (rectius: della propria “personalità artistica”).
È quest’ultima una tara che deriva dalla perniciosa identificazione tra l’opera dell’architetto e quella delle avanguardie artistiche figurative dei primi decenni del Novecento. Una tara che anima le correnti architettoniche contemporanee, i cui protagonisti sembrano spesso tesi ad ”épater le bourgeois”, rivivendo l’anacronistica ossessione dadaista.

Quanto all’atto del riconoscere ed apprezzare i valori presenti, declinando il progetto in base ad una valutazione contestuale, l’autore sottolinea la necessità di un pensiero trasversale, capace di cogliere non solo gli aspetti intrinseci, ma anche quelli relazionali, sia tra le parti che con il contesto.
L’Autore ci propone una esemplificazione tanto semplice quanto illuminante di questa pratica della visione laterale, illustrando il caso del rischio di crollo, a seguito di un sisma, di una colonna isolata: se la colonna incombe su di un luogo frequentato, sarà opportuno realizzare sistemi di sostegno adeguati; se la colonna è invece situata in un ambito confinato, sarà sufficiente predisporre un letto di sabbia atto ad offrire ai rocchi in caduta un atterraggio morbido.

Il progetto è dunque l’esito della tessitura di una trama che porta inevitabilmente i progettisti ad abitare mentalmente l’edificio ed il contesto oggetto della loro attenzione e che, da questo stato di interiorità, permette loro di assumere le decisioni in cui il progetto si concreta.
Ne emerge una visione viva ed operante della professione che reclama per il concepimento e l’attuazione del progetto un tempo esteso, per assicurare la possibilità di verifiche e ripensamenti.
A questo proposito, con vivace capacità di trascorrere senza mediazioni dal teorico al pratico, Manieri Elia ci richiama alla necessità di legittimare nel restauro architettonico la variante in corso d’opera che, proscritta nel 1994 dalla Legge “Merloni”, nella normativa attuale degli appalti è oggi un istituto residuale.

La parte più robusta del volume – la terza – è dedicata agli aspetti applicativi degli  interventi.
In un’esposizione semplice e pratica, sono passati in rassegna tutte le parti dell’edificio, gli elementi costruttivi ed i materiali con i quali all’architetto restauratore capiterà di avere a che fare.
Qui Manieri Elia, senza nulla cedere ad una rassegna completa delle tecniche in uso, non si dimostra “neutro”, ma testimonia anzi la propria intelligente “militanza” a favore delle tecniche tradizionali. Egli ci mostra di saper osservare e, anzi, vivere, l’odierna temperie del cantiere di restauro, della quale ci offre una istantanea efficace, riferendo ciascuna scelta tecnica alle ragioni fondative in termini di teoresi ed offrendo di ciascuna scelta gli elementi a favore e quelli contrari.

Nella quinta parte, non una mera appendice, ma un capitolo profondamente connesso al complesso del volume, Manieri Elia ci dà il modo di praticare insieme a lui  quanto esposto in precedenza in sei differenti casi di restauro progettati e realizzati.

Il caso del palazzo Pietromarchi in Marciano (PG) ci è apparso come il più completo, capace di comunicare vividamente il percorso che si compie dal progetto al restauro ultimato, percorso che si svolge attraverso la varie tappe: della ricerca; del riconoscimento dei valori materiali e immateriali (gli immateriali qui determinanti); delle innovazioni necessarie; della formulazione del progetto e, infine, della sua pratica attuazione.
L’intervento coinvolge un isolato urbano risultante dall’aggregazione di episodi costruttivi e di successive trasformazioni che hanno determinato un organismo complesso. Alcune di queste trasformazioni hanno compromesso lo stato normale dell’organismo, dilapidandone sia la qualità architettonica intrinseca che le qualità relazionali con l’insediamento.
Si percepisce con chiarezza come il progetto abbia proceduto su due registri paralleli e convergenti. Da un lato quello della valorizzazione della forma e della materia delle singole preesistenze incorporate nell’insieme; dall’altro quello del senso urbano del complesso, non solo autoreferenziato, ma anche – e specialmente – in rapporto all’immediato contesto urbano.
Un aspetto di particolare interesse che traspare dalla realizzazione è l’inserimento delle attrezzature e degli impianti necessari ad introdurre nel complesso le destinazioni d’uso e migliorare le condizioni di accessibilità.
Questo obiettivo è raggiunto talvolta attraverso la rimozione di parti aggiunte, talvolta mediante apporti costruttivi architettonicamente sintonici con le preesistenze, talvolta con apporti costruttivi estranei al contesto, la cui architettura è prodotta ad un registro semplice e comunque minoritario nel contesto sia per massa che per intensità espressiva.

Il caso della chiesa di S.Francesca in Nocera Umbra (PG), colpita dal sisma del 1997, mostra come dall’analisi dello stato di fatto sia possibile riconoscere lesioni recenti e remote dalle quali si possono stimare l’accumulo del danno e, complementarmente, la riserva residua di stabilità, da reintegrare mediante operazioni di restauro strutturale,

Il terzo caso, “Le rocchette” di Todi (PG), tocca l’interessante tema dei beni cosiddetti “minori”, i cui caratteri architettonici, essendo meno pronunciati, sono soggetti ad una maggiore esposizione dei valori materici di base: semplici, spogli e, proprio per questo, più esposti allo snaturamento. Si tratta di elementi ripetitivi e fragili, quali intonaci, coloriture, infissi, manti di copertura, per i quali scelte di esecuzione malaccorte relative alla grana materica, alla regolarità della superficie, possono tradursi in innovazioni formali devastanti per il senso di ambiente. Per non parlare dell’apporto costruttivo di zoccolature e dell’introduzione di infissi di registro formale più alto.
Il progetto ha tenuto conto di questi fattori, ma anche di una più generale comprensione del significato dell’insediamento fortificato, perduta a causa della mutilazione in altezza della torre che ne aveva costituito il primo elemento, di cui è stato coraggiosamente riproposto, ma purtroppo non attuato, il ripristino.

Tre restauri realizzati nel complesso di Villa Adriana, a Tivoli (RM), esemplificano l’intervento su manufatti archeologici.
Nel caso del Ninfeo Repubblicano, un manufatto carico ancora di interrogativi, si è mirato all’obiettivo della conservazione del documento materico. Sono stati dunque realizzati interventi poco più che provvisionali per assicurare la stabilità e limitare la disgregazione delle superfici, allo scopo di trasmettere integro il più possibile il testo edilizio a future interpretazioni.
Per la cosiddetta Casina degli Architetti, bisognosa di opere di contenimento delle spinte tendenti al collasso, il necessario presidio strutturale è stato alloggiato mediante la ricostruzione parziale di un vano superiore postantico rimosso nei restauri di liberazione. La ricostruzione, che avrebbe potuto anche essere più completa, fino a proteggere l’edificio dalle acque meteoriche, si è fermata al punto necessario e sufficiente all’ancoraggio delle catene estradossali su nuovi muri laterali, alti a sufficienza per gravare sui piedritti della volta sottostante con un peso significativo.
Interessante, infine, l’intervento di ricomposizione dei grandi blocchi in concrezione giacenti a terra dal crollo del Voltone presso lo Stadio. Rimessi in opera su piedritti murari con nucleo in cemento armato.

Benvenuto dunque un volume, lo ripetiamo, utile sia agli studenti che agli “addetti ai lavori”.
Manieri Elia del restauro architettonico ci offre una visione globale, mantenendone la nitidezza sia quando tratta del metodo, sia quando mette a fuoco la pratica del cantiere, tenendo i due livelli in un colloquio costante.


Francesco Giovanetti