Efficienza produttiva e qualità costruttiva. Problematiche tecnologiche, strutturali e di cantiere: l’esempio del Colosseo
Giovanni Manieri Elia
ENGLISH TRASLATION AT THE END
Panoramica grandangolare interna dell’Anfiteatro Flavio (Colosseo). |
Il seguente testo è tratto da: Giovanni Manieri Elia, Interventi di restauro sul patrimonio archeologico romano: tecnologie e metodologie, Roma 2003, tesi di dottorato svolta presso l'Università 'La Sapienza' di Roma, Facoltà di Architettura, pp. 107-120.
In caso di utilizzo si pega di citare la fonte.
Si analizzano, in questo testo[1], a titolo di esempio, alcuni specifici aspetti costruttivi, strutturali e di cantiere del Colosseo di uno dei monumenti più studiati al mondo –forse il più studiato– rimandando, per un’informazione più generale, all’ampia bibliografia esistente e qui selettivamente citata. Si è proceduto partendo dall’attenta analisi diretta del monumento e comunque tornando ad osservare direttamente dettagli già messi in luce dai vari autori. Lo scopo è quello di fornire elementi e metodi che evidenzino come sia possibile, dallo studio dei dettagli delle strutture che sono giunte fino ai nostri giorni, risalire alle modalità costruttive, alle tecnologie utilizzate per la costruzione del manufatto nonché alle cause del suo degrado o ai problemi strutturali.
Il criterio di interpretazione delle questioni costruttive e strutturali è stato quello di rileggere le scelte degli antichi edificatori nel quadro del loro modo di ragionare, di organizzare il processo produttivo con fini ben determinati e tenendo conto dei mezzi a loro disposizione.
Perdura l’incertezza sulla durata dei lavori di costruzione del Colosseo: secondo alcuni autori essa è stata di circa una decina di anni, più due per le rifiniture[2], secondo altri molto più breve[3]. Ciò che è sicuro è che la tempistica realizzativa fu straordinariamente breve nonostante che al momento dell’inaugurazione, avvenuta nell’anno 80 d.C., la costruzione non fosse ancora ultimata nell’attuale configurazione, essendo certamente ancora da realizzare l’attico e gran parte delle strutture ipogee sotto l’arena.
Come più volte rilevato, molti sono gli indizi che fanno ritenere il lavoro di costruzione dell’intero anfiteatro un’operazione complessa ideata, progettata e realizzata con un costante e attento controllo esercitato al fine di mantenere un alto grado di produttività durante l’intera fase di edificazione, tenendo cioè sempre in considerazione gli aspetti legati all’efficienza, intesa non solo come rapidità di esecuzione ma anche come rendimento qualitativo, nonché come solidità strutturale (firmitas) e lunga durata dell’opera realizzata, col minor costo possibile.
In quest’ottica sono da valutare tutte quelle scelte fatte in fase di costruzione del Coloseo tali da permettere il lavoro contemporaneo su più fronti ed in luoghi diversi. Il problema principale era infatti costituito dalla questione logistica ed organizzativa di far lavorare molte centinaia di persone nello stesso luogo. Il basso indice di meccanizzazione comportava infatti, a quei tempi, lavorazioni ad altissimo ‘contenuto’ di manodopera di tipo schiavistico. Essendo questa un bene pressoché illimitato, a basso costo e non essendoci problemi di approvvigionamento del materiale, facilmente reperibile nelle zone intorno a Roma, la questione della moltiplicazione dello spazio lavorativo di cantiere era di primaria importanza. Di qui la necessità di dislocare lavorazioni simultanee in luoghi diversi.
Innanzitutto i blocchi di travertino, ma anche quelli di tufo, arrivavano in cantiere già squadrati, percorrendo le ampie strade appositamente realizzate in modo da permettere il transito contemporaneo di un gran numero di carri. I conci, così regolarizzati, una volta in cantiere venivano raggruppati a seconda delle proprie altezze in modo da poter essere messi in opera nello stesso filare orizzontale. I vari ricorsi, infatti, non hanno la stessa altezza per ridurre al minimo il lavoro di scalpellatura, uniformazione dei blocchi e finitura[4].
Una grande mole di lavoro era dunque gestita fuori sede, probabilmente presso le cave dove il materiale veniva estratto, tagliato e regolarizzato.
Nello stesso tempo altri grossi blocchi di marmo erano in lavorazione presso gli scultori per l’esecuzione di quel grandissimo numero di statue che, a struttura ultimata, sarebbero state collocate in ogni fornice esterno.
Anche le dimensioni degli imponenti ponteggi, di cui è rimasta traccia dei punti di appoggio, sembrano evidenziare la necessità di poter raggiungere postazioni elevate con carichi consistenti - dunque presumibilmente costituiti da uomini e pesanti materiali - prima della conclusione o meglio del raggiungimento della solidità strutturale finale dei livelli intermedi. Con l’evidente intento, quindi, di lavorare contemporaneamente su più livelli. C’è chi porta avanti questo concetto fino a sostenere che i ‘pilastri’ in travertino, che si vedono inclusi nei muri radiali in tufo o laterizio nel Colosseo, furono innalzati prima della muratura che li contiene in modo da poter realizzare sopra di essi, prima possibile, un orizzontamento in concrezione tale da permettere il lavoro contemporaneo di più squadre di operai su più livelli[5]. In realtà, alcuni dettagli costruttivi, come la scarsità di ammorsamenti tra gli archi di scarico ed i suddetti pilastri e considerazioni esecutive di cantiere come la difficoltà di eseguire una muratura con grossi blocchi di tufo posti tra pilastri già eseguiti e con una copertura soprastante – che avrebbe complicato oltremodo i sistemi di sollevamento – fa piuttosto propendere per l’interpretazione secondo la quale questi elementi verticali in travertino, che percorrono le murature in tutta la loro altezza, erano destinati a concentrare su di loro i carichi maggiori, raccogliendo gli sforzi di compressione secondo allineamenti verticali preferenziali predeterminati[6].
Effettivamente, da un punto di vista meccanico-strutturale, è evidente che i carichi si concentrano sulla struttura più rigida, costituita, appunto, dai ‘pilastri’ in travertino, rispetto alle parti ad essa adiacenti che risultano, relativamente, più compressibili.
Altri elementi di razionalizzazione del cantiere e dunque di celerità esecutiva consistono nel massiccio utilizzo di elementi modulari in un edificio che, compatibilmente con la forma ovale, risulta comunque geometricamente regolare, ripetitivo e con poche eccezioni. Tutti i gradini delle scale, per esempio, erano delle stesse misure così come i sedili di marmo destinati agli spettatori avevano tutti la stessa dimensione di 57 cm ciascuno[7].
Le ‘mensole’ presenti nei pilastri del terzo ordine del Colosseo verso l’interno sarebbero servite ad impostare le strutture lignee dei ponteggi. |
L’intero anfiteatro Flavio era poi diviso in settori ognuno dei quali affidato ad appaltatori differenti. Ogni impresa, responsabile di un settore, lavorava con proprie maestranze e poteva giovarsi di una certa libertà di scelta nelle soluzioni tecniche esecutive. A prova di ciò esistono in vari luoghi della costruzione soluzioni tecniche costruttive che differiscono tra loro anche sensibilmente relative a parti architettonicamente uguali le quali, più che ripensamenti in corso d’opera, sembrano dettate da impostazioni esecutive diverse e concorrenziali.
In alcune parti, (verso Colle Oppio), le ‘mensole’ sono poste con cura alla stessa altezza. |
Secondo Giuseppe Cozzo un esempio di ciò è costituito delle mensole presenti nei pilastri del terzo ordine della cerchia esterna del Colosseo le quali sarebbero servite ad impostare le strutture lignee dei ponteggi.
In un settore di questa cerchia (verso Colle Oppio), le mensole sono poste con attenzione alla stessa altezza tanto che alcune di esse sono state accuratamente scalpellate nella loro parte superiore di alcuni centimetri per ritrovare la quota stabilita per l’appoggio. Una tale disposizione lascerebbe presupporre la collocazione di una trave lignea orizzontale tra di loro.
La scelta di non impostare i ponteggi sull’orizzontamento del secondo livello, scaricando il peso sui pilastri sottostanti della seconda cerchia e invece impostarlo su mensole sporgenti dalla parete, consentiva di lasciare completamente libero il solaio e quindi di realizzare su di esso, senza intralcio alcuno, le strutture del secondo ambulacro del terzo ordine.
In altri settori (verso i Fori Imperiali), i blocchi sporgenti sono disposti in modo apparentemente casuale o, in qualche caso, mancano del tutto. La differenza di quota sarebbe spiegabile con la presenza di puntoni obliqui impostati su di essi.[8]
La differenza tra i due settori che, come si diceva, secondo il Cozzo è dovuta alla scelta di due squadre di appaltatori distinti, secondo un altra teoria0[9], è dovuta al fatto che una imponente porzione dell'anfiteatro sarebbe crollata in seguito al grande incendio del 217 d.C. di cui si hanno notizie documentali e dunque la configurazione attuale della cerchia più esterna sarebbe, per quella parte, una ricostruzione successiva a tale data.
Questa sorprendente ipotesi, che in prima istanza potrebbe sembrare improbabile, in quanto si presuppone che un'attività riedificatoria così imponente avrebbe dovuto lasciare notevoli notizie e testimonianze, è in realtà supportata da molteplici indizi, rilavabili dall'osservazione diretta del monumento.
Le irregolarità del partito architettonico evidenzierebbero i punti in cui si congiungono i settori realizzati dalle varie squadre. |
Sono tuttora ben visibili nel Colosseo le congiunzioni in cui le parti realizzate dai cantieri dei diversi settori adiacenti vanno ad unirsi; è proprio qui che le incongruenze costruttive, come errori di scansione del partito architettonico o di definizione della quota d’imposta degli archi, determinano difetti di corrispondenza che saltano all’occhio in modo molto evidente.
L’osservazione della conformazione attuale rivela irregolarità anche notevoli ma che, nell’imponenza dell’insieme, evidentemente, non disturbavano l’effetto architettonico generale originario.
Pilastro in travertino che evidenzia come venisse ritenuto sufficiente un ingranamento esiguo tra i blocchi interni ed esterni. |
D’altronde la correzione in corso d’opera di incongruenze costruttive di questo tipo avrebbe comportato il rifacimento di parti consistenti con alti costi in termini di economia e di tempi d’esecuzione. Anche la mancanza di un perfetto allineamento verticale in prospetto tra i pilastri degli ordini sovrapposti, verificata con i rilievi, dimostra la determinazione a sacrificare il rigore esecutivo all’efficacia produttiva connessa all’autonomia dei singoli cantieri di costruzione[10].
Dall’analisi dei particolari costruttivi dell’intero edificio sembra emergere una regola generale alla quale le maestranze dovevano attenersi: avere cura del dettaglio solo nel caso in cui ciò risultasse indispensabile. L’attenzione dei particolari è infatti un costo, economico e di tempo, che aumenta enormemente con l’affinarsi dell’esecuzione, con la riduzione cioè delle approssimazioni e delle tolleranze. Impiegare risorse per affinamenti non necessari implicava una perdita di efficienza, rigorosamente da evitare.
Gli esempi di applicazione di questa regola sono molti nelle finiture ma anche in elementi strutturali. Esistono alcuni pilastri in cui i giunti verticali dei ricorsi sovrapposti sono sfalsati in modo esiguo. Evidentemente i costruttori romani non ritenevano essenziale un consistente sfalsamento dei giunti e la stabilità dimostrata dalla struttura millenaria ha dato loro ragione.
Per altri dettagli, ritenuti invece importanti, non vi erano eccezioni all’attenta cura prestata. Analizzando, ad esempio, la giacitura degli strati geologici del travertino, nei conci delle arcate, questi sono sempre paralleli a una delle due facce laterali dei cunei[11]. Questa modalità di posa veniva quindi considerata irrinunciabile, ciò a causa, evidentemente, della consapevolezza dei costruttori romani che il travertino fosse un materiale tutt’altro che isotropo.
Quanto alle volte a botte e a crociera del monumento esse sono realizzate, come di consueto per i Romani, con l’uso dell’opus caementicium, allettato a strati orizzontali su centina lignea.
Una tecnica esecutiva che compare per la prima volta nel Colosseo[12], ancora non sufficientemente studiata, ma certo da valutare anch’essa nell’ottica di una maggior rapidità esecutiva ed efficacia statica, è l’inserimento di archi in laterizio, collegati tra loro, all’interno dell’opus caementicium costituente le volte a botte.
Ci, sono varie ipotesi riguardo alla funzione di queste ‘nervature’: secondo alcuni servirebbero ad irrigidire la struttura, secondo altri a ripartire la massa di calcestruzzo fresco; ma la teoria più accreditata sembra essere quella secondo cui esse avevano la funzione di sgravare le centine lignee ed i puntelli sottostanti che, pertanto, potevano avere dimensionamenti molto più contenuti, dovendo sostenere solo poco più del peso delle costolature e non tutto il peso della massa di concrezione ancora fresca, oltre a consentire un disarmo in tempi più celeri.
Ciò costituiva un risparmio di materiale, oltre che per il ridimensionamento dei puntelli, anche perché permetteva un celere disarmo consentendo, oltretutto, di riutilizzare la stessa centina più volte. Inoltre puntelli più semplici e snelli erano più facilmente e rapidamente gestibili. Infine, e questa sembra essere stato il fattore più importante, si otteneva un risparmio di tempo per la più veloce praticabilità di una volta appena gettata.
Lato interno degli archi in travertino al terzo ordine del Colosseo, si notino le scanalature intorno alle ghiere. |
Si può avanzare l’ipotesi che queste scanalature fornissero l’appoggio per il tavolato delle centine le quali risultavano di più agevole realizzazione. |
Ma c’è un altro espediente che, con ogni probabilità, fu messo a punto in ordine alla semplificazione delle carpenterie, e precisamente quella tecnica che prevedeva l’esecuzione di una scanalatura negli archi in travertino adiacenti alle volte a crociera in opus caementicium. Sul lato interno degli archi al terzo ordine della cerchia esterna è infatti presente un solco, scalpellato nella pietra, a distanza regolare dall’intradosso. Secondo prime interpre-tazioni questa lavorazione sarebbe stata effettuata per favorire l’aderenza tra la concrezione della volta a crociera e la parete dell’arco. Si può avanzare, invece, l’ipotesi che essa costituisse l’appoggio per il tavolato delle centine il quale, in questo modo, risultava perfettamente conformato, collocato alla giusta distanza dall’intradosso dell’arco e non necessitava di complicati e robusti puntelli che, pertanto, risultavano, anche qui, di dimensionamento più contenuto, di maggior facilità esecutiva e più semplici e veloci da montare e smontare. Per favorire l’aderenza suddetta sarebbe stato sufficiente e sicuramente più celere spicconare il travertino, anche in modo disordinato, in alcuni punti, al fine di creare delle asperità. Per di più, in un’arcata posta verso i Fori Imperiali, sempre al terzo ordine, è presente una correzione, in corso d’opera, della scanalatura posta nella ghiera. Ovviamente non c’era motivo di effettuare alcuna correzione se tale lavorazione avesse dovuto esclusivamente favorire l’aderenza della concrezione e fosse destinata a rimanere occulta.
Anche la procedura che prevede la realizzazione di una volta con laterizi in foglio su più strati, è una soluzione adottata nel Colosseo. Essa suffragherebbe l’ipotesi della funzione portante e semplificazione delle centine lignee.
Allo stesso modo, per la realizzazione delle fondazioni, costituite da una imponente platea ovale (diametro maggiore 188 m, diametro minore 156 m), con foro ovale centrale, profonda in media 13 metri, si è proceduto in modo da avere notevoli risparmi di tempo di esecuzione. Essa, infatti, non fu ottenuta mediante uno scavo, per la realizzazione del quale sarebbe stato necessario un grosso impegno lavorativo, ma in elevato, colmando poi le zone adiacenti con terreno e macerie di riporto, provenienti dalle zone circostanti[13].
Questa struttura in concrezione con frammenti di pietra vulcanica dura (leucitite), particolarmente solida, compatta e impermeabile, prende il posto di un avvallamento naturale che, come è noto, era occupato da un piccolo bacino di raccolta delle acque provenienti dai colli, il così detto ‘Stagno di Nerone’. Le strutture neroniane, portici e costruzioni, che vi sorgevano intorno, furono seppellite nel terreno di riporto perimetrale.
La piattaforma di fondazione confinata ai suoi contorni da un poderoso muro in concrezione e cortina laterizia dello spessore di 3 metri[14], costituiva un appoggio particolarmente solido ed imponente in relazione al terreno acquitrinoso particolarmente cedevole che peraltro, con i secoli, ha determinato cedimenti differenziali nella parte verso il Celio.
I pilastri del primo ordine non poggiano direttamente sulla platea di fondazione ma su alti plinti in pietra interrati. Questi ultimi sono notevolmente più larghi dei pilastri su di essi impostati ed infatti alla quota di calpestio del piano terra è visibile la risega che essi formano[15].
Tra i plinti interrati e i pilastri si rileva un aggiustamento di alcuni centimetri: ciò consente di dedurre che solo al momento della realizzazione della parte fuori terra del Colosseo si è proceduto ad un’attenta misurazione e collocazione dei pilastri. Ancora una volta si rileva come attenzione e cura venissero poste solo laddove esse fossero ritenute necessarie, ovvero nelle parti in vista.
Un’altra questione analizzabile nell’ottica di una volontà dei costruttori di ottenere semplificazioni, ovunque possibile, allo scopo di raggiungere maggiore efficienza costruttiva è quella del tracciamento geometrico della planimetria del monumento. Alcune ipotesi considerano quella del Colosseo una forma ellittica, altre ritengono più probabile quella di una curva policentrica di tipo ovoidale. La distinzione non è semplice in quanto queste geometrie, nell’Anfiteatro Flavio, sono sovrapponibili a meno di poche decine di centimetri.
Certamente la curva policentrica è più agevole da tracciare, facilmente gestibile in cantiere e meglio compatibile con il fatto che i deambulatori hanno larghezza costante. Anche il direzionamento dei muri radiali risulta più immediato. Tutta la costruzione, e dunque il posizionamento di ogni singolo blocco, risulta, anche per i livelli sovrapposti, più facilmente controllabile da postazioni e traguardi collocati in punti ben determinati[16].
Quale motivo potevano avere i Romani di preferire una forma più complessa se differiva così esiguamente da un’altra più facilmente gestibile?
D’altronde i rilievi più accurati hanno confermato la natura policentrica delle curvature[17].
Un altro aspetto che si vorrebbe qui evidenziare è l’efficienza statica dell’assetto morfologico adottato per la facciata.
Risulta, infatti, particolarmente appropriata, ai fini di una maggiore solidità, la presenza di riseghe esterne tra gli ordini sovrapposti. E’ evidente dalle restituzioni grafiche delle sezioni, ma anche ad occhio nudo osservando la facciata curva del monumento tangenzialmente, come il filo facciata di ogni ordine sia arretrato di alcune decine di centimetri rispetto a quello sottostante. Una tale conformazione, peraltro canonica nella sovrapposizione degli ordini, garantisce al meglio che i carichi verticali, ai quali si aggiungono le spinte orizzontali verso l’esterno dovuti alle volte e, in caso di sisma, quelle dovute alle accelerazioni orizzontali, sollecitino i pilastri, alla loro base, nel modo più assiale possibile e quindi in modo che essi offrano la massima solidità, allontanando così l’eventualità di innesco di meccanismi di collasso per ribaltamento o di superamento della resistenza del materiale per parzializzazione della sezione resistente, dovuta a carico eccentrico. La cerchia esterna risulta quindi controventata verso l’interno dai muri radiali nonché dalla conformazione planimetrica arcuata e verso l’esterno da questa conformazione leggermente a gradoni della facciata,.
Le riseghe, che generalmente negli edifici vengono lasciate verso l’interno per non rimanere in vista ed offrire un prospetto piano, nel caso dell’Anfiteatro Flavio, assumono la funzione di rafforzare la partizione architettonica esterna, e esaltandone quell’effetto di stabilità tetragona che bene ha colto il Piranesi nelle sue suggestive rappresentazioni.
Altro fattore favorente la celerità dei lavori fu la meccanizzazione del cantiere. I Romani erano in grado di costruire complesse macchine per il sollevamento dei blocchi le quali, pur essendo di legno consentivano, mediante sistemi di leve, verricelli e argani, di elevare notevoli carichi.
Molto probabilmente anche i piani inclinati costituiti dalla sommità dei muri radiali che sostengono la cavea nonché altre superfici inclinate eseguite con terreno di riporto e detriti, furono usate come piani di adduzione per il trasporto e sollevamento dei blocchi.
Quanto agli enormi blocchi in travertino, essi venivano montati mediante macchinari di sollevamento di vario tipo: in quasi tutti sono presenti cospicui fori praticati al fine di consentirne l’aggancio. Prima di procedere all’appoggio di ogni singolo pezzo, veniva spalmato sulla superficie del blocco inferiore uno strato sottile di boiacca di calce; “questo strato fluido favoriva lo slittamento dei massi uno sull’altro e, nello stesso tempo, rendeva le parti a contatto più coesive”[18]. Aveva inoltre, evidentemente, l’importante funzione di distribuire i carichi sull’intera sezione orizzontale, evitando pericolose concentrazioni su aree limitate per la non perfetta complanarità delle facce combacianti. Inoltre venivano disposti perni metallici in appositi alloggiamenti, scalpellati nelle facce dei conci. A collocazione ultimata, infine, si colava piombo fuso in apposite canalette scalpellate nel blocco inferiore, che convogliavano quest’ultimo fino ai perni predisposti all’interno dei blocchi stessi che venivano così efficacemente fissati.
Quella miriade di fori, che attualmente sono visibili su buona parte della struttura in travertino del monumento, sono le tracce del laborioso recupero, attuato nel Medioevo, di materiali metallici divenuti all’epoca particolarmente appetibili.
Ma per quale motivo i Romani si impegnavano con tanta cura ad imperniare ogni singolo blocco? Una lavorazione così accurata e diffusa quale importante contropartita aveva?
Non era sufficiente il forte attrito dovuto agli altissimi carichi in gioco e all’ingranamento tra i conci per rendere la muratura ben coesa?
Secondo alcuni, le grappe nel Colosseo evitavano spostamenti relativi tra i blocchi, in fase di costruzione quando, in assenza di carichi sovrastanti e nel montaggio ed allineamento dei blocchi superiori, spostamenti indesiderati erano ancora possibili. Ma questa ipotesi perde forza considerando i sistemi di montaggio tramite strumenti di sollevamento e la facilitazione costituita dalla malta fluida di cui si è detto.
Anche la volontà di ottenere un rinforzo statico della struttura sembrerebbe da escludersi considerati gli alti valori dell’attrito.
L’unica situazione in cui l’effetto dell’attrito può diminuire considerevolmente è il caso del sisma. Le oscillazioni sussultorie possono, in determinati istanti, diminuire l’effetto della forza peso e le oscillazioni della struttura possono incidere negativamente sull’aderenza tra le facce dei conci, anche se per brevissimi periodi di tempo. In queste situazioni, gli effetti delle oscillazioni ondulatorie possono determinare dislocazioni dei singoli blocchi rispetto a quelli circostanti. E’ evidente che la presenza dei perni poteva avere la funzione proprio di evitare il verificarsi di tali circostanze, in quanto essi esercitavano un efficace vincolo che, resistendo al taglio, si opponeva a spostamenti orizzontali relativi.
Più semplicemente, è ipotizzabile che i Romani abbiano constatato gli effetti del sisma su murature di monumenti più antichi in opus quadratum ed abbiano, di conseguenza, molto opportunamente, trovato, o comunque utilizzato in modo sistematico, il più efficace espediente per prevenire il verificarsi di tale grave danno, peraltro irreversibile.
Le fotografie sono dell'autore (2002).
Altre foto del Colosseo sono nella pagina Figure .
Altre foto del Colosseo sono nella pagina Figure .
Per suggerimenti, commenti e osservazioni, potete contattare
l'autore inviando una email a metodoetecniche@live.it
NOTE
[1] Cfr. Giovanni Manieri Elia, Interventi di restauro sul patrimonio archeologico romano: tecnologie e metodologie, Roma 2003, tesi di dottorato svolta presso l'Università 'La Sapienza' di Roma, Facoltà di Architettura, pp. 107-120.
[1] Cfr. Giovanni Manieri Elia, Interventi di restauro sul patrimonio archeologico romano: tecnologie e metodologie, Roma 2003, tesi di dottorato svolta presso l'Università 'La Sapienza' di Roma, Facoltà di Architettura, pp. 107-120.
[2] Dal 71-72 d-C. fino al’80 d. C., Cfr. Giuseppe Lugli, L’anfiteatro Flavio, Bardi, Roma 1971, p. 11.
[3] Improbabile è la durata di tre, quattro anni, dal 76 d.C. al 80 d.C. Cfr. Giuseppe Cozzo, La costruzione dell’Anfiteatro Flavio, in “ Architettura e arti decorative”, fasc. VIII, aprile, 1923. P. 275.
[4] Giuseppe Cozzo fa osservare come il travertino venisse lavorato il meno possibile in cantiere per accelerare i tempi di esecuzione. I ricorsi hanno per questo differenti altezze e i blocchi destinati ad essere interrati hanno dimensioni molto irregolari. Cfr. Giuseppe Cozzo, Il Colosseo-L’Anfiteatro Flavio nella tecnica edilizia, nella storia delle strutture, nel concetto esecutivo dei lavori, Fratelli Palombi, Roma, 1971, pp. 29 e 30. Cfr. anche, sulla lavorazione dei blocchi in cantiere, Giuseppe Lugli, La tecnica edilizia romana, con particolare riguardo a Roma e Lazio, vol.1, Giovanni Bardi, Roma 1957, p. 332.
[5] Lugli ipotizza una iniziale “enorme ingabbiatura di pilastri ed archi in travertino” sulla quale era possibile procedere con diversi cantieri contemporaneamente. Cfr. Giuseppe Lugli, ibidem, pp. 331-332.
[6] Tesi riportata da Lugli (ibidem) e confermata da Antonino Giuffrè, Monumenti e terremoti, Roma 1988, p. 126.
[7] «Tutte le misurazioni erano effettuate in Modula e, per quanto possibile, si evitavano i frazionamenti» Cfr. Jhon Pearson, Il Colosseo, storia del monumento più rappresentativo dell’età romana, Mursia, Roma, 1975, p.88.
[8] Ipotesi avanzata da Giuseppe Cozzo, ibidem, p.46, fig. 28.
[9] Lynne Lancaster, Reconstructing the restoration of the Colosseum after the fire of 217 in: "Journal of Roman Archaeology", vol. 11, 1998.
[10] Cfr. Maria Letizia Conforto, Rossella Rea, Colosseo, alcune considerazioni tecniche, in Maria Margarita Segarra Lagunes (a cura di), Manutenzione e recupero nella città storica, atti del I Convegno Nazionale, Roma, 27-28 aprile 1993, Associazione per il recupero del costruito (ARCo), Gangemi, Roma 1993.
[11] Osservazione di Antonino Giuffrè, ibidem, p. 131, figg. 63 - 64.
[12] Cfr. Giovanni Teresio Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 116, figg. 98 - 99.
[13] Cfr. Giuseppe Cozzo, ibidem, p. 24 e cfr. Antonino Giuffrè, ibidem, p.123.
[14] Sulla conformazione, collocazione e materiali della fondazione cfr. F. Coarelli, G.L. Gregori, L. Lombardi e altri, Il Colosseo, Electa, Milano 1999, p. 104.
[15] A proposito delle “pilastrature di fondazione” cfr. Giuseppe Cozzo, ibidem, pp. 22-25.
[16] Piero Meogrossi, nell’ambito dell’ipotesi della conformazione policentrica del monumento, inquadrata in un assetto geometrico territoriale, ipotizza la presenza, in fase di cantiere, di una “torre-obelisco-traguardo e regia, alta e centrale”, cfr. Piero Meogrossi, Topografia antica e restauri archeologici, indicatori per il recupero della città, in Maria Margarita Segarra Lagunes (a cura di), Manutenzione e recupero nella città storica, atti del I Convegno Nazionale, Roma, 27-28 aprile 1993, Associazione per il recupero del costruito (ARCo), Gangemi, Roma 1993, pp.81-90.
[17] E’ la conclusione a cui è arrivato il gruppo di ricercatori coordinato da Mario Docci. Cfr. Mario Docci, La forma del Colosseo: dieci anni di ricerche. Il dialogo con i gromatici romani in “Disegno” n. 18/19 – 1999, pp. 23-31.
[18] Cfr. Giuseppe Lugli, ibidem, p. 243.
ENGLISH TRASLATION
THE COLOSSEUM: QUALITY AND EFFICIENCY OF CONSTRUCTION
By Giovanni Manieri Elia
The aim of this paper is to analyse certain specific aspects of the construction, structure and building site of one of the world’s most studied monuments – perhaps the most studied – referring back to the ample extant biography for more general information. With this goal the study proceeded beginning from a thorough direct analysis of the monument and returning nevertheless to observe directly details already pointed out by various authors.1
The criterion for the interpretation of constructional and structural questions has been to rexamine the choices made by the ancient builders within the context of their way of reasoning and their method of organising the production process with well-defined objectives in mind, taking into consideration also the means at their disposal.
The duration of the construction works of the monument remains uncertain: according to some authors, the building works took about ten years, with a further two years for finishing-off;2 according to others, the works were completed much sooner.3 What is certain is that the period of execution was extraordinarily short and at the moment of the inauguration of the Colosseum, which took place in 80 AD, the construction was not yet completed in its current form, since almost certainly the attic and the greater part of the structure of the hypogea under the arena had still to be realised.
As noted many times, there are several indications that suggest that the construction work of the whole amphitheatre was a complicated operation, which was conceived, planned and carried out under constant and careful control in order to maintain a high level of productivity during the entire period of the building works, therefore taking into consideration always those aspects connected to efficiency – which was understood not only as speed of execution but also as qualitative productivity – as well as the structural solidity (firmitas) and long life expectancy of the building with the least expense possible.
From this point of view, we need to evaluate all those choices that were made during the period of construction to allow work to proceed contemporaneously on many fronts and in different places. The main problem in fact was represented by the logistical and organisational challenge posed by the need to have many hundreds of people work in the same place. As a matter of fact, the low level of mechanisation in those days entailed using a workforce that had a very high content of ‘slave labour’. Since this sort of workforce was practically unlimited and low in cost, and given that there were no problems concerning the supply of materials that were easily available in the areas around Rome, the question of the multiplication of the working spaces of the building site was of primary importance, from which arose the necessity to distribute the works that were being carried out contemporaneously in different places.
Firstly, the blocks of travertine, but also those of tufa, arrived on the building site already squared, by way of the wide roads specially laid out to allow the simultaneous transit of a large number of carts. Once the squared stones arrived on site, they were grouped according to their height in order that they could be laid in the same horizontal row. In fact the various stone courses do not have the same height in order to minimise the work of dressing the stones, making the blocks uniform and finishing-off.4 A large volume of the work was therefore carried out off site, probably at the quarries where the material was extracted, cut and made regular. At the same time other large blocks of marble were in production with the sculptors for the execution of that great number of statues, which, once the structure was completed, would have been placed in every external arch.
The dimensions of the impressive scaffolding, of which traces remain in the points of support, also seem to indicate the necessity of being able to reach high positions with substantial loads – presumably consisting of men and heavy materials – before the conclusion or rather before the final structural solidity of the intermediate levels had been reached, with the evident intention, therefore, of working contemporaneously on several levels. There are those who carry this concept forward so far as to maintain that the ‘piers’ in travertine, which are visible enclosed within the radial walls built in tufa or brick, were raised before the walling that contains them, in order to be able to build a ceiling in concrete above the piers as soon as possible, so as to allow several teams of workers to work contemporaneously on several levels.5 In reality, certain constructional details, such as the scarcity of toothing between the load-bearing arches and the above-mentioned piers, combined with considerations regarding the execution of the work such as the difficulty of constructing a wall with large blocks of tufa that would have to be placed between pre-existent piers and with a ceiling above, which would have complicated greatly the lifting systems, make one tend rather towards the interpretation according to which these vertical elements in travertine, that pass through the walls in all their height, are intended to have the greater loads concentrated upon them, collecting together the forces of compression along predetermined preferential vertical alignments (Lugli 1957,331-332; Giuffrè 1988, 126). Indeed, from a mechanical-structural point of view it is obvious that the loads concentrate on the most rigid structure constituted precisely by the piers in travertine, compared with the parts adjacent to this structure, which, relatively, are more compressible.
Other elements that relate to the rationalization of the building site and therefore to the speed of execution, consist in the widespread use of modular elements in a building that in line with its oval form is anyway geometrically regular, repetitive and with few exceptions. All the steps of the stairs, for example, had the same measurements, as did the marble seats for the spectators which all had the same dimension of 57 centimetres each.6
The entire amphitheatre was then divided into sectors, each of which was entrusted to a different contractor. Every building firm, responsible for a sector, worked with his own workmen and could take advantage of a certain freedom of choice as regards technical solutions in the execution of the building; as proof of this, there exist in different places within the building notably different building techniques in parts which are architectonically the same, which, rather than second thoughts in the course of work, seem to be dictated by different and competing standpoints as regards the execution of the building.
One example is represented by the corbels present in the piers of the third tier of the external circle, which would have served to support the wooden structure of the scaffolding. In one sector of this circle (towards the Colle Oppio), the corbels are placed carefully at the same height, so much so that some have been chiselled painstakingly along their upper edge to remove a few centimetres in order to recover the established height for the support. Such an arrangement would lead one to assume the positioning of a horizontal beam between them. In other sectors (towards the Fori Imperiali), however, the projecting blocks are placed in an apparently casual manner, or, in some cases, lacking altogether. The difference in height could be explained by the presence of oblique struts set in position on top of these (Cozzo 1971, 46). The choice not to build the scaffolding directly on top of the roofing of the second level, thereby discharging the weight onto the piers below of the second circle, and instead to support the scaffolding on brackets projecting from the wall, allowed the builders to leave the floor completely free and therefore to build on top of this, without any obstruction, the structures of the second ambulatory of the third tier.
The difference between the two sectors, according to another theory (Lynne Lancaster, 1998) , is due to the fact that a huge portion of the amphitheater would collapse after the great fire in 217 AD and therefore the current situation of the outer circle would be, in that part, a reconstruction after the fire.
This hypothesis is supported by many details detected by the direct observation of the monument.
This hypothesis is supported by many details detected by the direct observation of the monument.
The junctions in which the parts realised by the workshops of different sectors meet are still clearly visible; it is precisely here that constructional inconsistencies, such as errors in the scansion of the architectural measure or in defining the height of the impost of the arches, give rise to faults in the correspondence between the sectors which stand out in a very obvious manner. Examination of the structure in its current state reveals even quite notable irregularities but evidently, given the impressiveness of the whole, they do not disturb the original general architectonic effect. On the other hand, the correction of constructional incongruities of this type during the course of the works would have involved the remaking of substantial parts at a high cost, both in economic terms and in the time required for execution. Also, the lack of a perfect vertical alignment between the piers of the superimposed orders in the façade, verified by surveys, demonstrates the determination to sacrifice exactitude in execution to the productive efficiency connected to the autonomy of the individual building teams (Conforto and Rea 1993, 73).
From analysis of the constructional details of the entire building there seems to emerge a general rule to which the workmen had to conform: to take care in the details only in the event that it proved inevitable. Attention to detail, in fact, represented a cost, both in terms of economics and time, which increased enormously with the refinement of the execution of a building, that is, with the reduction of the approximations and tolerances that in fact are evident in the structure of the Colosseum. To employ resources for unnecessary refinements entailed a loss of efficiency, strictly to be avoided. There are many examples of the application of this rule in the finishing-off, but its application is also evident in structural elements. For example, there are some piers in which the vertical joints of the superimposed courses are staggered only very slightly. Evidently the Roman builders did not consider a substantial staggering of the joints essential, and the stability demonstrated by the age-old structure has proved them right. On the other hand, there were no exceptions to the painstaking care given to other details that were considered important. Analysing, for example, the attitude of the geological strata of the travertine, these are always parallel to one of the two side faces of the voussoirs (Giuffrè 1988, 131 ) This manner of placing the stone was considered irremissible, clearly in relation to the Roman builders’ knowledge that travertine was a material which was not at all isotropic.
As for the barrel vaults and groin vaults of the monument, as is the custom of the Romans, they are carried out with the use of opus caementicium, bedded down in horizontal layers on a wooden centring. A building technique that appears for the first time in the Colosseum (Rivoira 1921, 116), which is still insufficiently studied but certainly to be evaluated from the viewpoint of a greater speed of execution and static efficiency, is the insertion of interconnected brick arches inside the opus caementicium forming the barrel vaults.
There are various hypotheses regarding the function of these ribs: according to some, they would have served to make the structure more rigid, according to others to divide the mass of fresh concrete into sections; but the most credible theory is that this ribbing had the function of relieving the wooden centring and the props below, which consequently could be much more contained in size, since they had to support only little more than the weight of the ribbing and not all the weight of the mass of fresh concrete. Furthermore, the use of the ribs allowed the centring to be dismantled much more quickly. This constituted a saving in materials because as well as a reduction in the dimensions of the props, the fact that the props could be dismantled sooner also allowed the same centring to be reused several times; props that were simpler and slimmer were also more quickly and easily manageable. Moreover, and this seems to have been the most important thing, the sooner that a vault cast only a short time previously could be made functional, the more time was saved.
There is another measure, however, that with every probability was put to the test with the aim of simplifying the carpentry work, and this was the technique that anticipated the execution of a groove cut into the face of the travertine arches that were adjacent to the groin vaults in opus caementicium. On the inside face of the travertine arches on the third tier of the external circle, there is in fact a furrow or groove cut into the stone at a regular distance from the intrados or lower curve of the arch According to an early interpretation, this operation would have been carried out to aid the adhesion between the concrete of the groin vault and the wall of the arch. It is possible to advance the theory, however, that this groove constituted the support for the planking of the centring, which as a result turned out perfectly formed and placed at the right distance from the lower edge of the arch and furthermore, it did not require complicated or robust props, which consequently here too became much reduced in dimension, much easier to make, and more straightforward and quick to erect and dismantle. To assist the adhesion of the concrete, it would have been sufficient and certainly much faster to break up the surface of the travertine at some points with a pick, even quite irregularly, in order to create some roughness on the surface. Furthermore, in an arch towards the Fori Imperiali, again on the third tier, there is a correction visible in the groove cut into the arch, made in the course of the works. Obviously there would be no reason to make any such correction if this working of the stone was intended solely to favour the adhesion of the concrete and was destined to remain concealed.
Returning to the ribbing, it should be pointed out that in its early days the technique of constructing vaults in concrete counted on a preliminary structure made up of large slivers of calcareous stone, placed on the centring and arranged radially, which remained embedded inside the concrete; therefore the insertion into the vaults of brick elements in the form of arches results from the technological evolution relating to the use of brick. It is not to be excluded that another function of the ribs, with respect to those already illustrated, could be to channel the forces within the most rigid and resistant elements, that is precisely the arches in brick, resulting in a concentration of the loads on the most rigid parts of the structure, as already shown with regard to the travertine piers present inside the tufa walling, but also because of the shrinkage of the mortar during the setting and hardening phase, which caused a concentration of the loads on those parts whose volume remains unchanged with the passing of time.
It is clear that the Romans were aware that the lines of force that run through masonry masses, due to vertical loads and horizontal stresses, both in the elevations and in the concrete vaults, never diffuse in a random, indifferent manner, but rather they follow very precise rules. Load-bearing arches, ribbing, piers in a more solid stone inserted within the walling, the carefully arranged horizontal positioning of the stones and of the fragments inside the concrete are all proof of such a knowledge, which, if not exactly scientific, was certainly technological.
Finally, we feel we can advance the hypothesis that the ribs and the links between them in bipedal bricks ( a two-foot square brick) could also have the function of distributing as much as possible the effects of the shrinkage of the mortar, which if subdivided into many different sectors would be negligible, while for large single volumes it could create serious problems of cracking in the concrete block. It is to be believed that the Roman builders must have been particularly aware of this problem, since a careful observation cannot miss the fact that the solutions adopted to remedy the problem reached high levels of refinement and perspicacity. But, furthermore, it is perhaps from this viewpoint in fact that we can also explain the use (not yet sufficiently justified) of opus reticolatum placed at 45°, not present in the Flavian Amphitheatre but widely diffused in the following decades.7
Even the procedure of which mention has been made of realising the vault with sheets of bricks in several layers – a solution moreover adopted at the Colosseum – would support the theory of the necessity of lightening the load-bearing function of the wooden centring and of simplifying it. In fact just as soon as the first layer of the vault was realised, which was very light and quick to execute since it was carried out with a quick-setting mortar and with a minimal centring, work proceeded to get the second layer under way, which could already make use of the support and the shape provided by the layer beneath, together with which it constituted a heavier and more robust structure as well. The same counted for the third layer, until a vault capable of supporting the weight of the mass of fresh concrete placed on top of it was obtained, the whole procedure achieved with a centring that, practically speaking, had the measurements necessary for just a thin sheet vault.
Probably the frequently used superimposed arches (with two arches placed one above the other and sometimes more)8 also follow the same criteria: only the first arch was intended to be carried on the wooden centring, which, therefore, could have much reduced dimensions. Furthermore, the bipartite and tripartite horizontal division did not diminish the carrying capacity of the structure since it was completely compressed, unlike that which would have happened in the case of trabeated systems.
Similarly, for the execution of the foundations – comprised of an impressive oval platea (greater diameter 188 metres, smaller diameter 156 metres) with an oval hole in the centre of an average depth of 13 metres – work proceeded in such a way as to save a considerable amount of time in the execution. In fact the foundations were not executed by means of excavation, which would have necessitated an enormous operational undertaking, but by building upwards, then filling in the adjoining areas with soil and rubble brought from the surrounding zones (Cozzo 1971, 24; Giuffrè 1988, 123). This structure, in concrete with fragments of hard volcanic (leucitic) stone, which was particularly solid, dense and impermeable, took the place of a natural trough that was occupied – as is well-known – by a small basin that collected water coming from the hills, the so-called ‘Nero’s Pool’. The Neronian structures, porticoes and buildings that rose up around the pool were buried in the made land around the perimeter. The foundation platform, bounded at its edges by a mighty wall in concrete and brick some three metres thick,9 constituted a very solid and impressive base in relation to the particularly yielding, marshy ground, which over the centuries has caused differential subsidence in the part towards the Celio.
The piers of the first order do not rest directly on the foundation platea but on high stone plinths buried in the foundation. These plinths are noticeably wider than the piers set upon them and as a matter of fact, on the ground storey the offset that these create is visible at floor level.10 Between the interred plinths and the piers, there is an adjustment of some centimetres, from which it can be deduced that only at the moment of realisation of the part above ground, was attention given to the accurate measurement and placing of the piers. Once again it is apparent that attention and care were given only where and in the moment in which they were considered necessary, or rather in the parts of the building that were in sight.
Another question which can be analysed from the viewpoint of the builders’ desire to simplify the construction process wherever possible in order to achieve greater building efficiency is that of the planimetric layout of the geometry of the monument. Some hypotheses consider the geometry of the Colosseum to be an elliptical form; others consider it more probable that it is a polycentric, ovoid curve. The distinction is not simple to make since, in the Flavian Amphitheatre, these geometries are superimposable but for a few tens of centimetres. Certainly the polycentric curve is easier to lay out, easily manageable on the building site and more compatible with the fact that the ambulatories have a constant width. Even the laying out of the radial walls turns out to be more immediate. With the use of a geometry governed by polycentric curves, all of the construction, and therefore the positioning of every single block, on the superimposed levels as well, turns out to be more easily controllable from positions and sights placed at particular points.11 What motive could the Romans have had to prefer a more complex form if it differed so slightly from another that was more easily manageable? Furthermore, the most precise surveys have confirmed the polycentric nature of the curvature.12
Another aspect that we should point out here is the static efficiency of the morphological configuration chosen for the façade. The presence of external offsets between the superimposed orders is, in fact, particularly appropriate to the objective of a greater solidity. It is apparent from the graphic renderings of the sections, but even to the naked eye observing the curved façade tangentially, that the line of the façade of every order is set back by a few tens of centimetres with respect to the order below. This configuration, which is also canonical in the superimposition of the orders, guarantees as far as possible that the vertical loads, to which are added the horizontal outward thrusts due to the vaults and, in the event of earthquake, those due to the horizontal accelerations, exert stress on the piers, at their base, in the most axial manner possible and therefore in the manner in which they offer the maximum solidity, thereby averting the eventuality of triggering mechanisms of collapse by overturning or the eventuality of exceeding the resistance of the material owing to the narrowing of the active section due to eccentric loading. As a result the external circle is braced towards the inside by the radial walls and towards the outside by this slightly stepped configuration of the façade, as well as by the curved form of the plan. In the case of the Flavian Amphitheatre, the offsets – which in buildings are generally present towards the inside so as not to be visible and in order to have a flat façade – reinforce the external walls and enhance the effect of solid stability which Piranesi grasped so well in his striking representations of the Colosseum.
Another factor relevant to the speed of the works was the mechanisation of the building site. The Romans were capable of building complex machines for the raising of the blocks, which, even if made only of wood, through a system of levers, winches and hoists allowed even quite considerable loads to lifted. Most probably the inclined surfaces constituted by the top of the radial walls that supported the cavea, as well as slopes built up with filling material and rubble, provided surfaces along which building materials could be drawn upwards and thereby played their part in the transport and lifting of the blocks.
As to the enormous blocks of travertine, these were assembled with the use of lifting machinery of various types: in almost all the blocks there are conspicuous holes to allow them to be hooked up. Before laying every single stone in position, the surface of the block underneath was smeared with a thin layer of liquid lime mortar: this fluid layer aided the sliding of the masses one against the other and, at the same time, rendered the parts in contact more cohesive (Lugli 1957, 243). Furthermore, this mortar layer clearly also had the important function of distributing the loads on the entire horizontal section, thereby avoiding dangerous concentrations on limited areas due to the fact that the corresponding faces of the blocks were not always perfectly flat. Moreover, metal pins were placed in appropriate slots cut into the faces of the blocks. Finally, the positioning completed, molten lead was poured into special channels carved into the lower block that conveyed the lead to the pins already positioned inside, which by this means were fixed effectively in place. That multitude of holes currently visible on all of the travertine façade of the monument are the traces of the laborious operation carried out during the Middle Ages to retrieve the metal materials which were particularly sought-after in that period. But for what motive did the Romans occupy themselves with such care to pin every single block? What important compensation did such a precise and widespread operation have? Was the strong friction owing to the high loads in play at the point of seizure between the blocks not sufficient to render the masonry sound?
According to some authors, the ties avoided relative shifts between the blocks during the phase of construction when, in the absence of loads above and in the setting and aligning of the upper blocks, unwanted displacement was still possible. But this theory loses its force if one considers the method of assembling and aligning through the use of lifting instruments and also the facilitation constituted by the liquid mortar of which mention has already been made. The objective of achieving a static reinforcement of the structure would seem to be excluded as well, taking into account the high values of the friction.
The only situation in which the effect of the friction could diminish to the point of failing is in the event of earthquake. The subsultory oscillations can, in certain instances, diminish the effect of the weight force and the vibrations of the structure can make the adhesion or bond between the faces of the blocks fail, even if for very brief periods of time. In these situations the effects of the undulatory oscillations can cause single blocks to become dislodged with respect to the blocks around them. It is clear that the presence of the pins could have had the precise function of preventing such circumstances from happening, in so much as they exercised an effective tie, which, resisting the shearing stress, opposed the relative horizontal displacement. Put more simply, it can be assumed that the Romans had observed the effects of earthquake on the masonry of older monuments in opus quadratum and, consequently, they opportunely found, or at least used in a systematic fashion, the most effective measure to prevent the occurrence of such serious damage, which was moreover irreversible once it had happened.
If you have any comment or suggestion please
NOTES
1. This paper fits within the compass of the research undertaken by the author for the Doctorate in Tecnologie dell’Architettura at the Univerisità ‘La Sapienza’ of Rome with a final thesis entitled Interventi di restauro sul patrimonio archeologico romano: tecnologie e metodologie, as well as in the sphere of the Gruppo per la Ricerca Storica sul Colosseo commissioned by the Soprintendenza archeologica di Roma to the University of Roma Tre.
2. From 71–72 AD until 80 AD, the year of the inauguration. See Lugli (1971), 11.
3. The alternative suggestion that the duration of the works was three to four years, from 76 AD to 80 AD, is improbable. See Cozzo (1923), 275.
4. Cozzo (1971) has pointed out how the travertine was worked as little as possible on the building site to speed up the execution of the works. For this reason, the stone courses have different heights and the blocks intended to be buried have very irregular dimensions. See Cozzo (1971), 29-30. On the working of the blocks on site, see also Lugli (1957), 1: 332.
5. Lugli hypothesizes an initial huge framework of pilasters and arches in travertine – “enorme ingabbiatura di pilastri ed archi in travertino” (Lugli 1957, 1: 331-332) – on which it was possible for work to proceed with different teams of builders working contemporaneously.
6. All the measurements were made using a module (or modula) and fractions were avoided wherever possible. See Pearson (1975), 88.
7. “The most fitting justification seems to be, however, that which begins from the consideration that the arrangement of the blocks set at 45° ensures that every ‘easing’ owing to the shrinkage of the mortar during the period of its setting, is easily aided and compensated for by small, gradual vertical shifts in the structure, assisted by the load itself, which recompacts the masonry before the mortar hardens, without the formation of vertical cracks. More simply, one could say that the diagonal disposition at 45° generates an effect of horizontal precompression of the structure, which averts the formation of vertical cracking during the phase of setting and hardening”. See Giovanni Manieri Elia 2002.
8. Among the many examples, we can cite the Terme di Caracalla, or the load-bearing arches at the Pantheon in Rome or at the Terme di Cellomaio at Albano .
9. On the form, location and materials of the foundations, see Coarelli et al. (1999), 104.
10. With regard to the “pillars of foundation”, see Cozzo (1971), 22-25.
11. Piero Meogrossi, within the context of a polycentric geometric configuration, the principal axes of which identify precise and significant directions that relate to the form and history of the city, suggests the presence during the phase of construction of a “torre-obelisco-traguardo e regia, alta e centrale,” that is, a tall centrally-placed tower used for taking sights in order to control the geometric layout of the building. See Meogrossi 1993.
12. This is the conclusion arrived at by the group of researchers coordinated by Mario Docci. See Docci 1999.
REFERENCE LIST
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Conforto, Maria Letizia, and Rossella Rea. 1993. “Colosseo, alcune considerazioni tecniche.” In Mantenuzione e recupero nella città storica. Atti del I Convegno Nazionale. Roma, 27-28 aprile 1993. Associazione per il recupero del costruito (ARCo), edited by Maria Margarita Segarra Lagunes. Rome: Gangemi.
Cozzo, Giuseppe. 1923. “La costruzione dell’Anfiteatro Flavio.” Architettura e arti decorative, 8.
Cozzo, Giuseppe. 1971. Il Colosseo: L’Anfiteatro Flavio nella tecnica edilizia, nella storia delle strutture, nel concetto esecutivo dei lavori. Rome: Palombi.
Docci, Mario. 1999. “La forma del Colosseo: dieci anni di ricerche. Il dialogo con i gromatici romani.” Disegno, 18/19: 23-31.
Giuffrè, Antonino. 1988. Monumenti e terremoti: aspetti statici del restauro. Rome: Multigrafica Editrice.
Lugli, Giuseppe. 1957. La tecnica edilizia romana, con particolare riguardo a Roma e Lazio. 2 Vols. Rome: G. Bardi.
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Manieri Elia, Giovanni. 2002. Interventi di restauro di archeologia romana: tecnologie e metodologie. Ph.D. thesis in Tecnologie dell’Architettura. Rome: Università ‘La Sapienza’.
Meogrossi, Piero. 1993. “Topografia antica e restauri archeologici, indicatori per il recupero della città.” In Mantenuzione e recupero nella città storica. Atti del I Convegno Nazionale. Roma, 27-28 aprile 1993. Associazione per il recupero del costruito (ARCo), edited by Maria Margarita Segarra Lagunes, 81-90. Rome: Gangemi.
Pearson, John. 1975. Il Colosseo. Storia del monumento più rappresentativo dell’età romana. Translated from the English by Adriana Crespi Bortolini. Mursia (Milan ).
Rivoira, Giovanni Teresio. 1921. Architettura romana: costruzione e statica nell’età imperiale. Milan : U. Hoepli.
All photographs: the author (2002).
Traslation: Vanessa Lacey.